martedì 13 maggio 2014

Piogge leggere e brevi,il mio invalicabile ora, il tuo occidente,un segno sulla sabbia,la sostanza del tempo...il vacuo terrore dell'eterno



Violetti e turgidi come carni segrete sono i calici dei fiori di
Ogigia; piogge leggere e brevi, tiepide, alimentano il verde lucido
dei suoi boschi; nessun inverno intorbida le acque dei suoi ruscelli.
E’ trascorso un battere di palpebre dalla tua partenza che a te pare
remota, e la tua voce, che dal mare mi dice addio, ferisce ancora il
mio udito divino in questo mio invalicabile ora. Guardo ogni giorno il
carro del sole che corre nel cielo e seguo il suo tragitto verso il
tuo occidente; guardo le mie mani immutabili e bianche; con un ramo
traccio un segno sulla sabbia – come la misura di un vano conteggio; e
poi lo cancello. E i segni che ho tracciato e cancellato sono
migliaia, identico è il gesto e identica è la sabbia, e io sono
identica. E tutto.
Tu, invece, vivi nel mutamento. Le tue mani si sono fatte ossute, con
le nocche sporgenti, le salde vene azzurre che le percorrevano sul
dorso sono andate assomigliando ai cordoni nodosi della tua nave; e se
un bambino gioca con esse, le corde azzurre sfuggono sotto la pelle e
il bambino ride, e misura contro il tuo palmo la piccolezza della sua
piccola mano. Allora tu lo scendi dalle ginocchia e lo posi per terra,
perché ti ha colto un ricordo di anni lontani e un’ombra ti è passata
sul viso: ma lui ti grida festoso attorno e tu subito lo riprendi e lo
siedi sulla tavola di fronte a te; qualcosa di fondo e di non
dicibile accade e tu intuisci nella trasmissione della carne, la
sostanza del tempo.
Ma di che sostanza è il tempo? E dove esso si forma, se tutto è
stabilito, immutabile, unico? La notte guardo gli spazi fra le stelle,
vedo il vuoto senza misura: e ciò che voi umani travolge e porta via,
qui è un fisso momento privo di inizio e di fine.
Ah, Odisseo, poter sfuggire a questo verde perenne! Potere
accompagnare le foglie che ingiallite cadono e vivere con esse il
momento! Sapermi mortale. Invidio la tua vecchiezza, e la desidero: e
questa è la forma d’amore che sento per te. E sogno un’altra me
stessa, vecchia e canuta, e cadente; e sogno di sentire le forze che
mi vengono meno, di sentirmi ogni giorno più vicina al Grande Circolo
nel quale tutto rientra e gira; di disperdere gli atomi che formano
questo corpo di donna che io chiamo Calipso. E invece resto qui, a
fissare il mare che si distende si ritira, a sentirmi la sua immagine,
a soffrire questa stanchezza di essere che mi strugge e che non sarà
mai appagata – e il vacuo terrore dell’eterno.

Lettera di Calipso a Odisseo, di Antonio Tabucchi

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